lunedì 30 giugno 2025
recensione di "Piccola orsa" di Lavinia Roncoroni
sabato 28 giugno 2025
recensione di "Film bestiali" di Alessandro Fiesoli
Film bestiali di Alessandro Fiesoli
«Possiamo emanciparci da uno stato primitivo per diventare creature migliori?»
Film Bestiali di Alessandro Fiesoli è un saggio originale, piacevole e accessibile che affronta un tema tanto curioso quanto affascinante: la presenza e il ruolo degli animali nei film più famosi della storia del cinema. L’autrice, con uno stile semplice, diretto e mai accademico, riesce a coinvolgere anche chi non è esperto di cinema, offrendo una lettura agile ma ricca di spunti di riflessione.
Il libro si struttura come un viaggio tra le pellicole più iconiche, alla scoperta del significato profondo che gli animali assumono sul grande schermo. Fiesoli non si limita a una lettura superficiale dei film, ma scava sotto la narrazione per mostrare come gli animali diventino veri e propri simboli culturali, strumenti attraverso cui il cinema affronta temi complessi, spesso legati alla nostra identità, alle dinamiche sociali e alle grandi trasformazioni della modernità.
Uno degli esempi più interessanti analizzati dall’autrice è Ratatouille, il film Pixar che racconta la storia di un topo che sogna di diventare chef nella sofisticata Parigi. Fiesoli si interroga: perché proprio un topo? Attraverso un'analisi lucida e stimolante, il saggio ricostruisce la storia del rapporto tra i topi e la città, evidenziando come questo animale sia sempre stato percepito come un escluso, un intruso negli spazi umani. La scelta di un topo come protagonista in un contesto cittadino moderno non è casuale: è una metafora della difficoltà di convivere con l'altro, del superamento dei pregiudizi e, più in generale, dei cambiamenti nel tessuto urbano e sociale delle nostre città.
Altro esempio emblematico è Il pianeta delle scimmie, dove la supremazia delle scimmie sugli esseri umani diventa un potente simbolo delle paure collettive: l’invasione, la perdita del controllo, il timore di essere soppiantati da una specie diversa ma, forse, più evoluta. In questo caso, l’autrice ci guida a riflettere sui pericoli latenti che minacciano di sconvolgere la nostra realtà e di mettere in discussione le certezze su cui abbiamo costruito la nostra civiltà.
Il pregio di Film Bestiali è proprio quello di utilizzare l’analisi cinematografica per esplorare temi universali e molto attuali. Attraverso le figure animali, Fiesoli affronta questioni profonde come:
- Il rapporto con la nostra identità: gli animali nei film spesso rappresentano ciò che è istintivo, primordiale, o ciò che cerchiamo di rimuovere nella costruzione della nostra immagine sociale.
- Il senso di colpa: molte storie mettono in scena la violenza o l’arroganza umana verso la natura, sollevando interrogativi sul prezzo del progresso e sulla responsabilità etica nei confronti di altre specie.
- La crisi del maschio moderno: Fiesoli individua nel cinema numerosi segnali di trasformazione dei ruoli di genere, con figure maschili in difficoltà e modelli di forza e intelligenza spesso associati agli animali o a personaggi femminili.
- Le conquiste del femminile: attraverso l’analisi di alcuni film, il libro racconta l’emergere di nuove protagoniste, capaci di sfidare gli stereotipi e di ridefinire le regole.
- Le nuove forme di maternità: le relazioni tra madri e figli vengono spesso rilette attraverso figure animali, che mostrano nuovi modelli di cura, protezione e autonomia.
- Il rapporto con la legge: Fiesoli osserva come, in molti film, gli animali siano al centro di narrazioni che mettono in discussione le regole sociali, aprendo riflessioni su ciò che è giusto, naturale o imposto.
La forza di questo saggio sta nella sua capacità di rendere visibile ciò che spesso sfugge a una visione superficiale: gli animali nei film non sono semplici comprimari, ma veicoli di significati profondi, spesso legati a paure inconsce, desideri collettivi e crisi identitarie.
Film Bestiali è dunque una lettura consigliata non solo agli appassionati di cinema, ma anche a chi è interessato a comprendere meglio la società contemporanea attraverso l’arte e la cultura popolare. Con uno stile chiaro e un approccio sempre curioso, Alessandro Fiesoli ci accompagna a guardare il cinema con occhi nuovi, invitandoci a riconoscere negli animali, sullo schermo e nella vita, uno specchio di noi stessi.
giovedì 26 giugno 2025
recensione di "Camàn" di Stelio Mattioni
Camàn di Stelio Mattioni
Come sempre, la mia opinione è indipendente e personale.
«Cammina cammina ci si illude, ma se l'ignoto è la libertà, è luogo che non esiste.»
Ci sono libri che arrivano tardi, eppure sembrano scritti proprio per il tempo in cui finalmente vedono la luce. Camàn di Stelio Mattioni, rimasto inedito per decenni, è uno di questi. È il diario personale e insieme universale di un uomo – e di tanti uomini – rinchiusi nel campo di prigionia di Helwan, in Egitto, dove migliaia di soldati italiani vissero in condizioni durissime dal 1942 al 1946, molto oltre la fine ufficiale della guerra. Quella dei campi in Nord Africa è una pagina rimossa della nostra memoria storica, quasi del tutto assente dalla narrazione pubblica: Mattioni la restituisce con una voce sobria, dolorosa, limpida.
Camàn non è un romanzo, ma un vero diario: una scrittura intima, fatta di frammenti, di pensieri affidati alla carta come si parla a un amico fidato. I capitoli sono brevi, ma non superficiali; anzi, ogni piccolo episodio racchiude in sé un mondo, un sentimento, una verità. È il ritmo naturale della memoria a guidare il racconto, con la sua alternanza di osservazioni minime, dialoghi ascoltati per caso, improvvise impennate di malinconia, e momenti di improvvisa grazia.
Tra questi, uno dei più commoventi e simbolici è il ricordo delle attività artistiche organizzate nel campo. Nonostante la fame, la stanchezza, l’incertezza del futuro, i prigionieri danno vita a spettacoli teatrali, concerti, momenti di socialità. Ma non hanno nulla: niente strumenti, niente scenografie, niente spartiti. E allora si inventano tutto. Un imbuto diventa un corno. Una tastiera disegnata su un cartone serve al pianista per esercitarsi. I concertisti suonano con il solo gesto, con la memoria, con l’immaginazione.
Non c’è musica, letteralmente. Non c’è suono. Eppure Mattioni scrive che la musica si sente comunque, come se davvero le note si diffondessero nell’aria. È uno dei passaggi più toccanti del libro. Perché non sta parlando solo di un trucco dell’ingegno o di un espediente scenico. Sta dicendo qualcosa di più profondo, di radicale: che quando l’essere umano è spogliato di tutto, può ancora immaginare. Può creare bellezza con il nulla, solo grazie alla memoria e al desiderio. La musica non è nelle orecchie, ma tra le dita che si muovono, nei corpi che ricordano il ritmo, nei gesti che imitano ciò che manca.
In quel momento, Camàn non racconta più solo la prigionia, ma ci parla della forza dell’immaginazione come forma di resistenza. Di fronte alla negazione assoluta – niente libertà, niente casa, niente strumenti – gli uomini si aggrappano all’invisibile. E quell’invisibile diventa vero. La musica, pur assente, vibra nei loro corpi, nei loro occhi, nel loro silenzio condiviso. È una musica muta ma reale, forse più reale di qualunque suono. Perché nasce dal bisogno di sentirsi ancora vivi, ancora umani, ancora capaci di bellezza.
Questo episodio racchiude il senso più profondo di Camàn: è un libro che racconta la mancanza senza mai cedere alla disperazione. Che mostra la povertà assoluta senza rinunciare alla dignità. Che ci fa capire come, anche nel deserto dell’esistenza, si possa ancora coltivare un giardino interiore.
La scrittura di Mattioni è tanto più forte quanto più resta semplice. Non grida, non pretende, non denuncia. Ma osserva, ricorda, raccoglie. È una voce discreta, che non cerca di colpire ma di custodire. Proprio per questo colpisce di più.
Camàn è un documento storico prezioso, perché restituisce visibilità a un pezzo di storia collettiva quasi cancellata. Ma è soprattutto un grande libro umano: un testo che parla a chiunque abbia conosciuto l’attesa, la solitudine, il bisogno di aggrapparsi a qualcosa che non si vede ma che si sente, profondamente. È il libro di chi ha vissuto l’assenza e l’ha trasformata in memoria, in racconto, in presenza.
E alla fine, come in quella musica invisibile, il lettore chiude il libro e sente qualcosa che non si può descrivere. Una vibrazione interiore. Come un suono che resta, anche dopo che tutto tace.
martedì 17 giugno 2025
recensione di "Lingua mortal non dice. Da Dante a Calvino" di Pietro Baroni
Lingua mortal non dice. Da Dante a Calvino di Pietro Baroni
Come sempre, la mia opinione è indipendente e personale.
«Così è il cuore dell’uomo: è uno strumento musicale che ha tutto il senso in potenza, ma c’è bisogno che qualcosa da fuori lo faccia risuonare.»
Il libro nasce come raccolta delle relazioni conclusive delle diverse edizioni dei “Colloqui fiorentini – Nihil alienum”, incontri che, a partire dal 2009, hanno coinvolto studenti, insegnanti e lettori appassionati. Tuttavia, anche se l’origine è scolastica, il libro va ben oltre la scuola: parla a tutti, perché parla della vita attraverso la letteratura.
La struttura del volume non segue l’ordine degli anni in cui sono avvenuti i colloqui, ma segue invece l’ordine cronologico degli autori della nostra letteratura. Si comincia da Dante Alighieri, padre della lingua e della poesia italiana, e si arriva fino a Italo Calvino, attraversando autori fondamentali come Foscolo, Leopardi, Manzoni, Verga, Papini, Pirandello, Saba, Montale e Pavese. Questo percorso non è solo storico, ma anche ideale: mostra come la letteratura italiana, nel corso dei secoli, abbia continuato a interrogarsi sulle grandi domande dell’esistenza umana: il dolore, l’amore, la speranza, la morte, il mistero dell’essere umano.
Ogni capitolo del libro è dedicato a un autore e si concentra su alcuni testi particolarmente significativi. A volte si tratta di poesie, altre volte di brani narrativi. Baroni analizza questi testi con attenzione, ma senza mai cadere nel tecnicismo o nella freddezza: il suo obiettivo non è spiegare la letteratura come qualcosa da studiare e basta, ma farla risuonare come qualcosa che riguarda profondamente la nostra esperienza. Per lui, leggere non è solo capire, ma soprattutto incontrare: incontrare un autore, una voce, un’idea, una domanda.
Lo stile di scrittura è semplice ma profondo, sobrio ma capace di emozionare. Baroni non usa parole difficili o frasi complicate: la sua chiarezza nasce da una grande passione e da una lunga esperienza. Ogni lettura proposta nel libro è un’occasione per riflettere su noi stessi, per guardare dentro la nostra vita, per porci delle domande che magari non ci facciamo spesso, ma che sono fondamentali.
Una delle qualità più belle del libro è che riesce a mostrare come la letteratura non sia qualcosa di lontano o inutile, ma qualcosa di vivo, che può toccarci nel profondo e cambiare il nostro modo di vedere il mondo. Non si tratta solo di imparare nozioni, ma di fare un’esperienza, di riflettere su noi stessi e lasciarsi trasportare un viaggio nuovo e speciale. Come scrive l’autore, ogni lettura può diventare un incontro vero, e ogni incontro può trasformarci.
Lingua mortal non dice è un libro consigliato a insegnanti e studenti, ma anche a chiunque ami la letteratura o senta il bisogno di fermarsi un attimo, leggere con calma e ascoltare parole che parlano ancora oggi. È un libro che invita a pensare, ma anche a sentire. È un libro che ci ricorda che leggere è, prima di tutto, un modo per ritrovare noi stessi.
lunedì 9 giugno 2025
Recensione “Il tarassaco con i pantaloni alla zuava” di Amato Salvatore
Il tarassaco con i pantaloni alla zuava di Amato Salvatore
Questo libro mi è stato proposto grazie alla preziosa collaborazione con L'Alcova Letteraria.
Il tarassaco con i pantaloni alla zuava è una raccolta poetica che sorprende fin dal titolo, ironico e surreale, ma profondamente evocativo. Il tarassaco, pianta comune, umile, eppure sorprendentemente resistente, diventa qui il simbolo di una voce poetica che si fa strada tra le crepe della realtà, mettendo radici là dove meno ce lo aspettiamo: tra i marciapiedi di una città disillusa, nei pensieri erranti di un’anima inquieta, nella memoria personale e collettiva.
La metafora del tarassaco è il filo conduttore di questa raccolta: una pianta che non ha bisogno di molto per vivere, che si accontenta di poco per fiorire, ma che non per questo rinuncia a interrogarsi, osservare e riflettere sul mondo che la circonda. E così è anche il protagonista poetico di Amato: un "tarassaco con i pantaloni alla zuava", personaggio quasi fiabesco, ma profondamente reale, che cammina tra passato e presente, tra città e campagne, offre al lettore uno sguardo lucido e attento sul nostro tempo.
La raccolta si compone di quaranta poesie, e in esse si alternano registri differenti e molteplici toni: c’è la nostalgia, la denuncia, l’ironia, la dolcezza, la rabbia e la tenerezza. Alcune poesie affondano le radici nell’esperienza personale – come i racconti del nonno, le riflessioni silenziose tra sé e sé, i frammenti di vissuto – altre si aprono a una dimensione più ampia, sociale e politica, toccando temi come le disuguaglianze, la trasformazione dei luoghi e delle coscienze. In entrambe le direzioni, Amato si muove con naturalezza, senza retorica, ma con una sincerità disarmante.
Un esempio emblematico della sua capacità evocativa è la poesia Il treno che passa solo una volta, in cui leggiamo:
Quanto tempo speso sulla banchina
nell’attesa di quel fantomatico treno,
quello che passa una sola volta.
In questi versi semplici ma incisivi, Amato riesce a cristallizzare un sentimento comune, quello dell’attesa vana, del rimpianto, del tempo che scorre e della sensazione di aver perso un’occasione irripetibile. Una poesia che parla al cuore di chiunque abbia vissuto l’ansia del "non essere al momento giusto nel posto giusto", e che, proprio per questo, riesce ad essere universale.
Lo stile di Amato è asciutto, a tratti colloquiale, ma mai banale. C’è un amore profondo per le parole, ma anche per ciò che esse evocano, rappresentano, fanno germogliare nel lettore.
Ma ciò che più colpisce in questa raccolta è la capacità di Amato di far convivere l’elemento autobiografico con una riflessione più ampia sul tempo presente. Il tarassaco diventa così una metafora dell’essere umano contemporaneo: resistente, sensibile, spaesato ma radicato nella propria storia e nel proprio sentire.
Una raccolta che si legge tutta d’un fiato, ma che chiede anche di essere riletta, meditata, assaporata con calma. Perché in ogni poesia c’è un frammento di verità, una scintilla che può accendersi solo se il lettore è disposto a farsi toccare. E in tempi come questi, in cui la parola sembra spesso inflazionata e svuotata, la poesia di Salvatore Amato ci ricorda che scrivere è ancora un atto di resistenza. E che un fiore, anche il più umile, può cambiare il paesaggio.
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